Cancelleria degli Ordini Dinastici della Real Casa di Epiro

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martedì 16 marzo 2010

Turchia: il clero ortodosso rischia il proprio futuro




Articolo tratto da Limes - rivista italiana di geopolitica
Autore:Federico de Renzi



Il Governo dell’Akp sta facendo di tutto perché il seminario di Khálki non apra. Le istituzioni ortodosse e i pochi greci rimasti in Turchia sono ancora oggetto di pregiudizi. Nonostante le promesse fatte da Erdogan, le future generazioni del clero ortodosso rischiano di non avere un futuro.
Nei 1.700 anni dalla sua fondazione sulle rive del Bosforo, il patriarcato greco-ortodosso di Istanbul (per gli ortodossi Costantinopoli) è sopravvissuto a molte crisi e a sfide cruciali per la sua stessa esistenza, su tutte la IV Crociata con il successivo esilio di Nicea (1204-1261), il Concilio di Basilea-Firenze-Ferrara (1431-1439) e l’indipendenza del patriarcato di Mosca (1448), e infine la caduta di Costantinopoli (29 maggio 1453). Quando Ghennadios II Scholarios (1454-1464), divenne Capo comunità (Milletbasi) dei Rûm (i cristiani greco-ortodossi) dell’Impero per ordine di Mehmet II il Conquistatore, il patriarca mantenne la sua sede nella chiesa della Theotókos Pammakaristós (VIII-XI sec.).

Quando questa venne trasformata in moschea da Murad III per celebrare la sua vittoria (fetih) in Georgia e Azerbaigian nel 1586, con il nome di Fethiye Camii (Moschea della Vittoria) il patriarca si trasferì nella piccola chiesa di San Giorgio, nel quartiere di Fener. Dal 1° ottobre 1844 il patriarcato forma i quadri dell’ortodossia di tradizione greca nella Scuola di Teologia di Khálki. Questa venne fondata dal patriarca Germanos IV (1842-1845; 1852-1853), sulle rovine del monastero della Santa Trinità (seconda metà del IX secolo), nell’Isola di Heybeliada, la seconda in grandezza tra le Isole dei Principi. Dal 1453 fino alla creazione della Repubblica di Turchia nel 1923, il patriarcato Ecumenico di Costantinopoli rappresentò il simbolo della sola unità spirituale dei Cristiani ortodossi; mentre infatti le singole chiese autocefale nate tra il 1453 e il 1913 (seconda Guerra Balcanica), da quella di Kiev/Mosca fino a quelle di Serbia e di Romania, eleggevano i propri patriarchi, il patriarca ecumenico, da sempre primus inter pares, con la nascita della Repubblica kemalista divenne insieme il capo della chiesa di Turchia e il simbolo della Chiesa spirituale.

Ora, il piccolo seminario, chiuso nel 1971 in seguito alla politica anti-turca della Grecia dei Colonnelli (1967-1974) e istituzione di punta del Cristianesimo greco-ortodosso, sta diventando una pedina nella nuova partita tra Grecia e Turchia. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, ha messo in relazione dei possibili miglioramenti giuridici per il patriarcato e i greci di Turchia con simili passi per la minoranza turca in Grecia. Durante la sua visita a Washington del 7-8 dicembre scorsi, Erdogan ha più volte detto che il suo governo ha continuato a lavorare con il Ministero della Commissione per l’istruzione superiore, o Yök (Yüksekögretim Kurulu Baskanligi) per la riapertura del seminario greco-ortodosso di Khálki.

Lo stesso presidente Obama in quell’occasione, così come già durante la sua storica visita a Istanbul del 6 aprile, ha ricordato come la riapertura del seminario sia fondamentale nel processo di reintegrazione delle minoranze religiose ed etniche nel processo democratico. Allo stesso modo lo è dall’Unione europea, a cui la Turchia vuole aderire. Senza la scuola sull’isola di Heybeliada, il clero di Istanbul e dell’intera Ecumene greco-ortodossa, rischiano di scomparire. Lo stesso patriarca Bartolomeo I, durante la sua visita a Washington lo scorso 6 novembre, ha ricordato al segretario di Stato Hillary Clinton quanto la riapertura del seminario sia importante per la libertà religiosa nel paese.

I greci presenti oggi in Turchia sono quello che rimane degli oltre 20.000 che, in base al Trattato di Losanna del 1923, poterono rimanere in seguito allo scambio di popolazione tra Nuova Repubblica di Turchia e Grecia. Quella che ancora viene definita in Grecia la “Catastrofe dell’Asia Minore” (Mikrasiatikí Katastrophí) fu l’ultimo capitolo di uno scontro nato cento anni prima, quando i rivoluzionari fanarioti (dal quartiere Phanári, oggi Fener) della Filikí Etería dal loro esilio a Odessa e guidati da Aléxandros Ypsilántis (1792-1828), scatenarono la Guerra d’indipendenza greca. Allora, con la benedizione del patriarcato ecumenico, dopo le prime rivolte nei principati danubiani e le sconfitte in Peloponneso per mano della forza di spedizione guidata da Ibrahim Pasa, figlio del Khedive d’Egitto Mehmet ‘Ali, con l’aiuto di Russia, Gran Bretagna e Francia, riuscirono a liberare la Grecia storica dal giogo ottomano (1832).

Ma questa volta, con la sconfitta per mano del genio di Mustafa Kemal delle potenze mandatarie, già quasi un milione di Greci era fuggito prima della messa in atto del trattato (1° maggio 1923), e tra questi i superstiti dell’Incendio di Smirne (13 sett. 1922). Tragico epilogo della Guerra di Liberazione turca dall’Imperialismo Franco-britannico e dall’Irredentismo greco, l’Incendio è ancora oggi sentito in Grecia come una ferita aperta. Questo seguì alla presa della città per mano delle truppe repubblicane guidate da Ismet Inönü (9 sett.) e pose de facto fine alla guerra Greco-turca (1919-1922), formalizzata dall’Armistizio di Mudanya (ottobre 1922). Questo fu voluto proprio da Inönü, che con la cessione di Adrianopoli (Edirne), della Tracia orientale fino alla Maritsa alla Turchia, e il riconoscimento della sovranità turca sui Dardanelli, poneva il sigillo alla Megáli Idéa di Elefthérios Venizélos.

Dato che molti Greci erano già fuggiti, lo scambio coinvolse essenzialmente l’oltre un milione di greci d’Anatolia (sia ellenofoni che turcofoni) e 189.916 Greci del Ponto. I musulmani trasferiti furono 354.647. Dei greci trasferiti però, solo 150.000 vennero risistemati in maniera appropriata. Dell’oltre 1.500.000 di greci anatolici (detti appunto Rumî) costretti a trasferirsi in Grecia, le popolazioni maggiormente colpite dallo scambio furono i Karamanlídes (greci turcofoni di Karaman –Laranda- e Cappadocia) e gli ellenofoni della Cappadocia, le comunità della Ionia (Smirne, Ayvalik), del Ponto (Trabzon, Samsun), di Bursa, della Bitinia (Izmit/Nicomedia), di Kadiköy (Calcedonia) e della Tracia orientale. Questi si andarono ad aggiungere al milione già fuggito prima dell’armistizio. A questi si aggiunse mezzo milione di musulmani, che passò in Tracia e da lì in Anatolia.

Questi non erano solo turchi, ma anche bulgari musulmani (Pomacchi), greci musulmani d’Epiro (Turkoyanyótes, ossia Turchi di Ioannina), di Macedonia (Vallaádes) e Cipro, e musulmani di Creta. I Turchi e gli altri musulmani della Tracia occidentale vennero esentati da questo trasferimento, come pure i greci di Istanbul e delle isole egee di Imbro (Gökçeada) e Tenedos (Bozcaada). Durante il primo periodo repubblicano, tuttavia, i greci furono oggetto di misure punitive. La legge parlamentare 1932 che proibiva ai cittadini greci di esercitare oltre 30 mestieri e professioni, dal sarto al carpentiere e dall’avvocato al medico. La popolazione greca di Istanbul ha da allora cominciato a diminuire, come dimostrato dalle statistiche demografiche. La legge sul capitale (Varlik Vergisi) del 1942 prima e il Pogrom di Istanbul contro i greci del 6-7 settembre 1955 poi contribuirono fortemente alla riduzione della popolazione greca della Turchia, che passò dai 135.000 di prima dell’attacco ai 7.000 del 1978, per arrivare ai meno di 4.000 del 2008.

Anche se vi sono solo 2000 greci (Rumlar, ossia Bizantini) rimasti nella città che una volta era la capitale dell’Impero bizantino, il Patriarcato è rimasto il centro spirituale della Chiesa ortodossa in tutto il mondo. Bartolomeo I, attuale Patriarca, è la guida spirituale di oltre 250 milioni di cristiani ortodossi. Erdogan ha detto in una recente intervista al Kriter, magazine del quotidiano Radikal, che il suo governo sta studiando i modi per riattivare il seminario di Khálki, e sembra che la scuola possa essere riaperta già nel primo semestre di quest’anno. Se il seminario potrebbe essere riaperto, il governo di Atene però “dovrebbe risolvere anche i problemi della minoranza turca in Tracia”. Ha poi aggiunto che “La questione del seminario richiede un processo multidimensionale. Dobbiamo esaminarla in dettaglio sia attraverso le norme giuridiche che il sistema d’istruzione. I ministri e le istituzioni competenti hanno studiato possibili approcci” .

Mentre il Ministero dell’Istruzione sta ancora lavorando al problema, si sono svolte lunghe discussioni sul futuro possibile status giuridico del seminario: una fondazione o una scuola collegata con il ministero. Secondo il primo approccio, il seminario verrebbe a consistere di due dipartimenti, mentre la sezione scuola sarebbe considerata una “scuola superiore religiosa privata” e collegata con il Ministero dell’Istruzione. La sezione collegio opererebbe sotto l’egida del Ministero dell’istruzione superiore. Curriculum e libri di testo sarebbero sotto il controllo del ministero, nel caso il seminario operasse come una scuola superiore religiosa professionale, come ad esempio le imam-hatip. Il secondo approccio prevede che il seminario sarebbe riaperto come una Fondazione. La legge sull’istruzione privata avrebbe dovuto essere modificata al fine di attuare entrambi gli approcci, poiché è illegale aprire una scuola religiosa o militare ai sensi dei regolamenti esistenti. In base a una sentenza della Corte costituzionale del 1971 infatti, tutte le scuole private devono essere collegate a un’università statale.

L’articolo 130 della Costituzione recita: “è consentito alle fondazioni stabilire collegi organizzazione senza scopo di lucro, che sono sottoposte al controllo e alle ispezioni dello Stato”, ma l’articolo 132 recita “solo alle Forze Armate Turche e alla polizia è consentito aprire scuole private.” Il professor Ali Bardakoglu, direttore del Ministero per gli Affari religiosi (Diyanet Isleri Baskanligi), ha accolto con favore la notizia di una possibile riapertura. “Tali questioni possono essere discusse e facilmente risolte” ma solo nell’ambito della libertà religiosa, ha detto. Il governo turco afferma però che da entrambe le parti dovrebbero essere fatti “passi reciproci”, il che significa che la Grecia dovrebbe concedere maggiori libertà ai turchi che vivono in Tracia. “Il governo greco dovrebbe considerare turchi e risolvere i loro problemi relativi al clero islamico, alla disoccupazione e ai diritti per la creazione delle associazioni di minoranza” ha detto Erdogan. Oggi, i cristiani greci di Istanbul sono cittadini turchi, e i turchi della Tracia occidentale hanno passaporti greci, ma in Turchia il problema della libertà religiosa per le minoranze è ancora oggi molto più serio che in Grecia.

I rappresentanti della minoranza turca della Grecia (circa 100.000 persone) da anni chiedono maggiori diritti da parte del governo di Atene. Tra le altre cose, si battono per aver riconosciuto il diritto di eleggere i propri leader religiosi. Alcune delle loro richieste, come ad esempio quella per il riconoscimento ufficiale delle associazioni turche, rispecchiano quelle dei cristiani in Turchia. Legando il futuro del seminario greco al destino di turchi di Grecia, Erdogan ha fatto sua una posizione assunta spesso dai nazionalisti turchi. Già lo scorso giugno ricevette una dura critica dal ministro degli Esteri greco Dora Bakoyannis.

Abdülhadim Dede, giornalista turco di Grecia, ha detto sul portale Bianet che egli rifiuta il collegamento fatto dal Primo Ministro Erdogan. Ai Turchi di Grecia non serviva un dialogo con la Turchia, ma con il governo del proprio paese. Per Dede la situazione delle minoranze non musulmane in Turchia è la stessa che per i musulmani in Grecia. La Grecia può allentare tensioni e contribuire a una soluzione permanente introducendo misure che vadano incontro alle richieste dei suoi cittadini turchi, come revocare la proibizione ad utilizzare l’aggettivo “turco” nella denominazione delle associazioni. Nonostante il gran numero della comunità turco-musulmana in città, non ci sono moschee di Atene, e le poche moschee ottomane esistenti in Grecia sono oggi musei. Inoltre la costruzione di un cimitero islamico è vietata anche ad Atene, dove vivono più di 100.000 musulmani, e questi sono costretti a seppellire i loro morti in Tracia.

In risposta lo stesso patriarca Bartolomeo I disse ai media turchi che era sbagliato stabilire un collegamento tra le due questioni, e circa la nota del primo Ministro Erdogan sul fatto che dovrebbero esserci più moschee di Atene, ha risposto: “Se ad Atene non ci sono moschee e lo Stato greco nomina i mufti, è colpa mia?”. Il 20 dicembre scorso, in un’intervista alla Cbs, il Patriarca disse che seppur trattati come “cittadini di seconda classe” e talvolta si sentano “crocifissi” dalle restrizioni, i Greci in Turchia preferiscono restare. Alla domanda “Talvolta ha paura che la Comunità potrà essere spazzata via?” il Patriarca ha risposto “Non proprio”. “Siamo sopravvissuti. Crediamo nei miracoli.” E questo, ha detto il Patriarca, è perché la Turchia è anche la Terra Santa, spiritualmente non molto lontana da Gerusalemme.

Il Governo dell’Akp, nella persona del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu ha respinto le critiche del Patriarca, sperando che ci sia stato un scivolone linguistico e sostenendo che la crocifissione non rientra nella fede e nella cultura della Turchia. Non c’è stata alcuna reazione ufficiale da parte del governo greco alle osservazioni di Erdogan sul seminario Khálki e i turchi di Grecia. Il patriarcato non ha risposto alle richieste di un commento. Lo scorso novembre, in una lettera al suo omologo greco Geórgios Papandréou, Erdogan aveva proposto nuovi sforzi per risolvere le questioni in sospeso tra i due paesi, su tutte la questione di Cipro. Dopo la sua vittoria elettorale dello scorso ottobre Papandréou stesso si è recato in Turchia, e negli ultimi mesi sia Erdogan che Davutoglu hanno visitato Atene in diverse occasioni, ma finora non ci sono stati accordi concreti tra i due paesi sulla sorte delle rispettive comunità.

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